Storia

Vena di Maida è situata su una collina, sul punto più stretto dell’istmo di Catanzaro, tra il Golfo di Squillace e quello di S. Eufemia.

Il paese, ubicato a 242 m sul livello del mare, è posto in una situazione panoramica incantevole: dai punti più in alto si possono ammirare i due mari, lo Jonio ed il Tirreno e le montagne del Nicastrese da una parte e quelle delle Pre Serre dall’altra.

Vena è ben collegata con la superstrada dei due Mari e dista circa 25 Km dal capoluogo di Regione che è Catanzaro. Nel 1831, con decreto del 4 maggio istitutivo dei Comuni e dei Circondari Vena veniva riconosciuta Comune autonomo; ma nel 1839, con un decreto del 14 ottobre, veniva assegnata come frazione al comune di Maida.

Secondo fonti storiche più attendibili, Vena paese arbëreshë fu fondata nel 1450 da milizie albanesi al seguito di Demetrio Reres, nobile albanese, il quale su invito del re di Napoli Alfonso I di Aragona, venne in Calabria per riportare all’obbedienza i baroni che si erano ribellati alla sua autorità. Uno di tali ribelli era il marchese Antonio Centelles a cui si era alleato Luigi Caracciolo, conte di Nicastro e Signore di Maida.

Demetrio Reres venne quindi al comando di un gruppo di armati con al seguito le famiglie. Per ricompensa dei servigi resi, il re di Napoli nominò nel 1448 Demetrio Reres governatore della Calabria e confiscò i beni ai baroni.

Gli uomini che erano stati al seguito di Reres si distribuirono in diversi paesi della provincia di Catanzaro, andando a ripopolare campagne e casali abbandonati.

La località dove fu fondata Vena era un casale abbandonato e si trovava nel terreno confiscato dal re Alfonso a Luigi Caracciolo, all’epoca pare che quel terreno avesse il nome di S.Andrea.

L’attuale nome del paese, Vena , ha forse origine dalle caratteristiche geomorfologiche e dalle condizioni strutturali del territorio che è molto poroso e ricco di venature.

Altre fonti inseriscono la fondazione di Vena dopo l’invasione dei turchi in Albania e quindi dopo la morte di Scanderberg.

Secondo lo storico Gaetano Boca, Vena sorse su territori confiscati dal re Alfonso I d'Aragona a Luigi Caracciolo, conte di Nicastro e Signore di Maida e fu tra i primi insediamenti albanesi in Calabria.

Il 4 maggio del 1831, col decreto istitutivo dei Comuni e dei Circondari, si stabiliva il Comune di Vena. Dal 14 ottobre del 1839 Vena è stata assegnata come frazione al Comune di Maida. Oggi conta 1300 abitanti.

I venoti (così chiamati gli abitanti di Vena ) non trascurano l’origine e le caratteristiche della cultura albanese, ma al contrario, cercano di tramandare usi, costumi, folklore e di custodirli gelosamente nel tempo.

Tra il ‘700 e l’800 diverse personalità culturali attraversarono Vena e rimasero colpiti dalle sue usanze, dalla sua lingua, ma soprattutto dai suoi costumi, tanto da scriverne nei loro racconti di viaggio.
Henry Swinburne, a Vena nel 1777,  parla della bellezza delle sue donne e della vistosità dei loro abiti:
"Questa è la parte più stretta d'Italia [si riferisce al fiume Amato] e qui la strada da Napoli, attraverso la Puglia e Catanzaro, passa dal Mare Ionio al Mar Tirreno. Mentre attraversammo l'Amato, incontrammo una comitiva di greci di ambo i sessi provenienti da un villaggio vicino. I loro abiti erano notevolmente vistosi, con una predominanza dei colori giallo e rosso. Le donne erano molto più attraenti della maggior parte delle calabresi."

Ricco di dettagli il racconto di Craufurd Tait Ramage durante il suo viaggio del 1828, sul rito del matrimonio dei primi dell’800, in cui descrive abiti e danze di Vena:
"Dopo pranzo proposi di andare, mentre il mio ospite faceva la siesta, a visitare il paesino Vena, che dista solo pochi chilometri da Maida e che, mi avevano detto, era una colonia albanese; [...]. Scendemmo nuovamente nell'alveo del fiume Lamato, che io traghettai sulle spalle della mia guida, risalendo poi la collina sulla riva opposta del quale si trovava il paese di Vena. Avvicinandomi a Vena non incontrammo anima viva. Gli abitanti erano tutti in Chiesa ad assistere alla messa vespertina, ed ebbi così un'ottima occasione per esaminare i caratteristici costumi del luogo e l'aspetto degli abitanti. La cappella era piccola ed affollata, il numero delle donne era di gran lunga superiore a quello degli uomini; quelle erano così devotamente intente alla preghiera che neppure la presenza di uno straniero riusciva a distrarle. I loro volti avevano una forma più ovale di quelli delle italiane ed avevano gli zigomi sporgenti; in questo mi ricordavano le mie compatriote. Non ne vidi nessuna di particolare bellezza, ma il loro comportamento semplice e modesto era particolarmente piacente. Le vesti erano riccamente ricamate e i colori di queste erano per lo più azzurro acceso e viola. L'acconciatura dei capelli era fantasiosa, questi erano riportati altissimi sulla testa, tanto da sembrare elmi. [...]. Questa foggia di elmo che danno ai loro capelli è di particolare effetto. Questa gente conosce perfettamente l'italiano, ma tra loro parlano albanese. Ho avuto grande difficoltà a scoprire se hanno usi e costumi particolari, perché raramente si rendono conto di essere diversi dagli altri; ma avendo chiesto se le cerimonie che accompagnano il rito del matrimonio fossero diverse da quelle comuni, uno dei presenti mi illustrò la seguente usanza: una danza chiamata "valle", deve precedere la cerimonia nuziale. le donne si dispongono in circolo tenendosi per mano e, precedute da una bandiera, avanzano danzando e cantando le canzoni guerriere del loro paese quando questo era in lotta contro i turchi. La danza ha luogo quando la giovane sposa viene accompagnata a casa dal marito. Il matrimonio qui viene ancora celebrato secondo il rito greco. Due corone sono preparate, una per lo sposo e l'altra per la sposa, e dopo essere state benedette vengono poste sulle loro teste e quindi sui cuscini del letto matrimoniale, la danza guerriera è ancora nota come danza albanese o di Lamico. Questi albanesi si sono stabiliti nel Regno di Napoli nel quindicesimo secolo, quando il loro paese fu invaso dai Turchi, preferendo l'esilio piuttosto che rinunciare alla fede di loro padri. A quell'epoca facevano parte della Chiesa greca, ma si sono sottomessi all'autorità del Papa, ma non ho sentito dire, tuttavia, che sia mai stata usata forza per indurli a fare questo. Mi doleva che il giorno andasse rapidamente volgendo al declino, perché ciò precludeva ogni ulteriore scambio di idee con gli abitanti di Vena."

Alexandre Dumas, che attraversò Vena nell’ottobre del 1835, sottolinea la bellezza e la maestosità dei costumi delle donne del paese, così affascinanti da essere ritratti dal suo compagno di viaggio, il pittore Jadin:
"Dopo un'ora e mezza di marcia arrivammo a Vena. La nostra guida non ci aveva ingannato perché alle prime parole che rivolgemmo ad un abitante del paese, ci fu facile capre che la lingua nella quale gli parlavamo gli era tanto perfettamente sconosciuta come a noi quella nella quale ci rispondeva. Ciò che venne fuori da quella conversazione fu che il nostro interlocutore parlava un dialetto greco-italico, e che il paese era una delle colonie albanesi che emigrarono dalla Grecia, dopo la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II. La nostra entrata a Vena fu sinistra: Milord cominciò con lo strangolare un gatto albanese, che non potendo, in coscienza, vista l'antichità della sua origine e la difficoltà di discutere il prezzo, valutare quanto un gatto italiano, siciliano, o calabrese, ci costò quattro carlini: era un salasso serio nello stato delle nostre finanze per cui, perché non si ripetesse un fatto simile Milord fu messo al guinzaglio. Tale uccisione e gli urli lanciati non dalla vittima, ma dai suoi proprietari, causarono un rassembramento di tutto il paese, che ci permise di notare, dal tipo di costume di ogni giorno che portavano le donne, che quelli riservati alle domenica e alle feste dovevano essere molto ricchi e belli. Proponemmo allora alla padrona del gatto, che teneva teneramente il defunto tra le su braccia come se non potesse separarsi neanche dal suo cadavere, di portare l'indennizzo ad una piastra se avesse voluto indossare il suo più bel costume, e posare perché Jadin facesse il suo ritratto. La negoziazione fu lunga; ci furono discussioni abbastanza animate tra moglie e marito; infine la donna si decise, rientrò in casa, e mezz'ora dopo usci con un costume risplendente d'oro e di ricami; era il suo abito da sposa."

Horace de Rilliet, a Vena nell’ottobre 1852, ne descrive minuziosamente l’abito femminile e, unico tra i viaggiatori, tratteggia inoltre le caratteristiche del vestito indossato dagli uomini:
"Dopo alcune miglia di marcia, attraversiamo il fiume Lamato su un ponte in legno: il ponte di Calderaio, alla estremità del quale la popolazione della cittadina di Vena, pittorescamente raggruppata sulle colline e sulle rocce ci accoglie con le grida entusiaste di "Viv' il re" o "Viv'u re" come pronunciano nel loro dialetto calabrese. Il costume delle donne è molto pittoresco. Esse portano sulla testa un berretto riccamente ricamato d'oro, la cui forma ricorda quello d'ordine dei nostri soldati e che si allaccia sotto il mento con un lungo velo bianco, ch'esse lasciano svolazzare sulle spalle. Ciò ricorda un po' l'acconciatura delle donne ebree. Il corpetto di queste donne si allaccia sul davanti e lascia passare larghe maniche di camicia. La gonna del vestito è corta, variopinta con colori sgargianti e abitualmente sollevata e stretta intorno alla vita, mentre una sottogonna rossa scende sino a metà delle gambe che sono avvolte in una stoffa rozza di lana nera. Le stoffe di questi vestiti sono tinte con i colori più appariscenti: rosso, blu, giallo; l'oro non è risparmiato nei ricami. Qualche volta hanno le scarpe ma si accontentano di portarle a mano o attaccate alla cintura. Gli uomini hanno un cappello a punta, ornato con un pennacchio di nastri che ricade da un lato e che portano in modo civettuolo sull'orecchio. Una giacca rotonda di velluto nero lascia vedere una larga cintura di cuoio nero, guarnita di chiodi di ottone le cui capocchie formano dei disegni; la cintura stringe alla vita dei pantaloni corti; calze bianche e sandali o scarpe intrecciate allacciate alle gambe con cinghie o corde, completano questo costume molto pittoresco [..]"

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